Nelle Città invisibili di Calvino, Marco Polo fa al Kublai Kahn una descrizione fisica delle città che ha visto, ma non si limita a questo. Gli espone anche un resoconto dettagliato delle città che gli vengono in mente quando vede quelle reali, delle sensazioni e delle emozioni che ogni città, con i suoi profumi, sapori e rumori, suscita. Il risultato non può essere che una città immaginaria, ma in fondo cosa c’è di più reale dell’immaginazione?
Nella costruzione di una città oggi non metterei mai al primo posto il cardo e il decumano, né altri dei numerosi tracés régulateurs che l’urbanistica ci ha insegnato. Non metterei al primo posto neppure la tanto conclamata “sostenibilità”, pure importante e che oggi va tanto di moda. Inizierei proprio ad “ascoltare” il luogo, ad interpretarne le sensazioni ed emozioni stratificate nel tempo, combinandole con le aspettative di oggi.
Ecco, su queste fondazioni inizierei a ricostruire la città e come la città gli alberghi.
Sul significato di ospitare
ospitare
– 1. a. Accogliere e tenere qualcuno nella propria casa, fornendo vitto, alloggio e assistenza, con riferimento sia a persone amiche e conoscenti, sia, più raram., a estranei, in tal caso dietro compenso, o anche gratuitamente
Una volta gli alberghi erano veri e propri pezzi di città, appartenevano in tutto e per tutto alle città che li contenevano. Alcuni di essi non erano neppure immaginabili in città diverse.
Pensate al glamour intriso di champagne e leggenda del Ritz di Parigi
Oppure all’Hotel de Russie a Roma
Il rapporto era di tipo urbano e l’albergo trovava la sua collocazione esattamente come il municipio, il teatro e la chiesa, ed insieme ad essi concorreva a formare la piazza. Gli alberghi erano intimamente legati alle città che li contenevano. Erano maestosi e misteriosi, molto più grandi degli ospiti che accoglievano. Davano l’impressione di essere esistiti da sempre e che avrebbero continuato ad esserci anche dopo che l’ospite se ne fosse andato. In un’epoca in cui il viaggio era anche e soprattutto il viaggiare piuttosto che il semplice partire ed arrivare, l’albergo pretendeva di essere compreso così come lo esigeva la città o il luogo.
Con arrivi e partenze sempre più frenetici e soggiorni negli alberghi sempre più brevi si produsse appunto la necessità di garantire standard omogenei, gli alberghi cominciarono ad assomigliarsi tutti perché ciò che rendeva una città o una cultura diverse dalle altre sembrava meno importante di quanto fosse la facilità di collegamento.
Gli anni dello standard, che avevano fatto coniare a Marc Augè l’espressione: “non-luoghi” riferita appunto a spazi anonimi e senz’anima sembrano ormai lontani. Lo standard era nato per garantire una qualità dell’ospitare omogenea sia in termini di spazi che di servizio. Si voleva che la propria clientela trovasse esattamente lo stesso ambiente e trattamento sia che si trovasse a Parigi o a Tokio.
Quando ho iniziato a progettare alberghi con l’Intercontinental di Londra mi sono stupito dell’enorme quantità di schede descrittive che riguardavano ciascun elemento dell’albergo: dal banco reception alla testata letto fino ad arrivare al più piccolo dettaglio che allora era rappresentato da una specie di perno che si estraeva dal fianco dell’armadio per appendere il vestito appena arrivato dalla lavanderia.
Devo aver messo su una faccia perplessa e così mi è stato spiegato che serviva a far vedere al cliente il lavoro fatto, in modo tale che poi, ritrovandosi la cifra nel conto, non potesse esprimere dubbi. Il fatto mi dimostrò che a quel livello di professionalità ed esperienza nulla doveva essere lasciato al caso e che ciascun elemento della struttura ricettiva rispondeva a precise esigenze funzionali. L’esasperazione di questi criteri ha portato per l’appunto alla nascita di alberghi privi di personalità e tutti uguali.
La pandemia da un lato e la digitalizzazione dall’altro hanno cambiato completamente il modo di vivere lavorare insieme al nostro stesso modo di stare al mondo.
Spentasi in parte l’ebbrezza della velocità si tratta di recuperare l’intensità emotiva che una città ed un albergo possono proiettare, pur accettando il principio di una differenza sostanziale tra le nozioni di spazio e tempo dell’epoca in cui viviamo sicuramente diverse dal passato. Nozioni/percezioni che stimolano la nascita di alberghi capaci di evocare/provocare emozioni legate al presente come al passato, al reale come al solo immaginato (ancora le città invisibili) tanto appaiono sfrangiati e indefiniti i confini. L’albergo riflette in pieno la società che lo contiene, luogo ambiguo e polivalente. Insieme punto d’incontro e garanzia di anonimato, luogo in cui qualcosa potrebbe avvenire e perciò luogo per eccellenza, dove è possibile perdersi e rimettersi in gioco in un ambiente dove non sei riconosciuto.
Può quindi oggi la progettazione di un albergo trasformarsi in un appello alla diversità? Presuntuosamente rivendicare attraverso la realizzazione di un “luogo” una vittoria sull’omologazione culturale? Quanto più le forze dell’omogeneizzazione avanzano, tanto più cresce la necessità di luoghi capaci di generare cultura.
In questo senso l’architettura dell’albergo è uno strumento potenzialmente forte, in grado di dare un senso al luogo perché capace di riconoscerne le qualità intrinseche. Solo percorrendo questa strada sapremo sottrarci al pericolo di un processo contrario che ci riporti ad una specie di storicismo romantico che rappresenta da sempre una forza reazionaria all’interno del movimento dell’architettura contemporanea.