Il progetto per la realizzazione degli spazi interni dell’Aparthotel Cannaregio ha previsto la trasformazione di uno storico edificio situato a Venezia, nel sestriere di Cannaregio.
Originariamente monastero, tipologia dalla quale deriva la forma a chiostro con corte interna, dal XIX secolo l’edifi cio è divenuto “Squero”, luogo nel quale si costruivano le gondole. Attualmente è divenuto albergo ad appartamenti, una particolare tipologia di hotel che consente di combinare il comfort dell’appartamento con la qualità del servizio alberghiero.
La suddivisione degli spazi interni è stata progettata da una società di ingegneria che ha curato anche il progetto strutturale. Per questo, in molti casi, non è stato possibile interpretare il progetto degli interni comprendendo nel gioco compositivo la modulazione degli stessi. Fanno eccezione: la corte esterna, dove è stato possibile disegnare il giardino ed i percorsi, e la corte interna, dove siamo intervenuti sul rapporto tra le facciate che la racchiudono.
La stessa scelta di alcuni materiali, quali travature in legno e muri in mattoni faccia vista, è stata, in molti casi, subita. Mentre in alcune situazioni, come nella reception, le travature erano originali e sono entrate nel progetto insieme alle putrelle d’acciaio che ne hanno garantito il rinnovo strutturale, in altri casi si sono ripetuti solai con lo stesso tipo di travi quando ciò non era né giustificato, né necessario. Lo stesso vale per tratti della muratura in mattoni a vista, che a Venezia, al pian terreno, sono una costante dettata da motivi pratici (l’umidità), più che estetici.
Arredamento
Arredare dunque, come diceva il maestro Carlo Scarpa, è inteso nel senso di “provvedere al necessario”. Ma, come lui splendidamente precisava nella “lectio magistralis” tenuta a Venezia in occasione dell’apertura dell’anno accademico 1963-64, “Come architetti non abbiamo ancora riscattato la forma delle cose umili e semplici”.
Quindi, necessario a cosa? A quale esigenza? del corpo, dello spirito o di entrambi? Perché in un albergo è sicuramente necessario riposare, lavarsi, riporre i vestiti, a volte pranzare e lavorare. Ma in quanto all’esperienza?
Non ci interessano forse le emozioni che accompagnano il turista quando scende dal ponte del Rio Alvise e si trova di fronte, non già i fasti del Danieli o del Cipriani, e neppure una pur prevedibile e pretenziosa facciata di un palazzotto Veneziano. “Infondo,” – potrebbe dire – “siamo pur sempre a Venezia”. Invece, magari un po’ deluso, si troverà davanti un volume dalla semplicità disarmante che solo gli edifici “industriali” sanno offrire e scenderà dal ponte, o approderà dal canale, entrando attraverso due porte che non annunciano niente di fastoso.
È solo all’interno, dopo aver varcato la soglia, che potrà iniziare a godere di quello spazio particolare. Il salone d’ingresso è un volume semplice, con il soffitto ancora fatto delle travi in legno della fabbrica, rinforzato da due grosse putrelle in acciaio. Il pavimento e le scale sono in pietra d’Istria, mentre un frammento di terrazzo alla veneziana rende omaggio alla sapiente ingegnosità degli artigiani veneti.
Gli arredi sono compresi entro le minime forme necessarie, la loro funzionalità è piena ma contrita e lascia che sia il fascino del luogo a prevalere su tutto il resto.
I corridoi sono labirinti misteriosi, i muri sono storti, spesso in semplici mattoni e tutta l’ambiguità semantica del percorso contribuisce a trasformare il loro attraversamento in un’esperienza che può essere altra e soggettiva.
Le stanze per gli ospiti sono tutte diverse, spesso dipendono dalle antiche forme dell’opificio; a volte sono organizzate su due livelli con una piccola scaletta in ferro di accesso al soppalco.
Il materiale usato è un pannello industriale fatto di semplice segatura pressata, quasi un “beton di legno” che consente di ottenere forme compatte e non rivestite.
Gli arredi fissi sono organizzati secondo la logica del “provvedere al necessario” occupando il minor spazio possibile, cercando una “fusione” con lo spazio della stanza.
Gli arredi mobili sono di forme secche e squadrate, mentre le luci sono semplici scatole in acciaio o acrilico tese a valorizzare la forma dello spazio interno.
L’intento è ancora chiaro: che sia il luogo, non l’orpello, a definire l’esperienza emozionale. Questo tipo di arredamento sobrio ed essenziale ha lo scopo di favorire un diverso e consapevole approccio che, passando per Venezia, dovrebbe comunque riportare a se stessi, con rinnovata intensità.
L’osteria
La piccola corte interna, coperta di cristallo, separa il locale con il bancone bar dall’osteria. La discussione sull’osteria rimarrà a lungo nella memoria dei protagonisti. Ancora l’istinto iniziale era quello di riprodurre una (quasi) originale osteria veneziana. La logica voleva essere di nuovo quella di Las Vegas. Loro riproducono Venezia lì, noi riproduciamo un pezzetto di Venezia qui.
Durante mesi di confronti serrati, il minuscolo spazio prendeva comunque forma, con le travi originali, il soffitto bassissimo, le pareti in mattoni, fino a determinare quasi da sé la scelta di un arredo monastico con tavoli e sgabelli ricavati dallo stesso modulo. Alla fine non si è ricopiata l’osteria, si è riprodotta l’esperienza conviviale e collettiva dell’osteria.